Che Trump e la Clinton siano i peggiori candidati
possibili dei rispettivi partiti e che quella che sta per concludersi sia la
più indegna campagna elettorale nella storia delle presidenziali è cosa sulla
quale convengono molti. Peraltro, quando parlo di un livello molto basso di
questa campagna elettorale non mi riferisco solo alle battute di Trump, come
invece mi pare che accada a molti, ma anche e soprattutto alle battute su
Trump. Non solo agli affondi di Trump e dei suoi sostenitori, ma anche agli
attacchi a Trump e ai suoi sostenitori. Ma su questo prendo subito in prestito
le parole della mia amica Paola Ursino, perché esprimono nel modo migliore ciò
che penso anche io:
“Non mi
piace per niente Trump come non mi piaceva Berlusconi. Ma porca miseria,
possibile che la sinistra insopportabilmente corretta americana come all'epoca
quella italiana la debba sempre buttare in catastrofe morale?! Possibile che
gli avversari politici debbano essere dipinti come mostri di presunta
immoralità, come nemici da sconfiggere per evitare l'apocalisse?! Possibile che
i milioni di simpatizzanti ed elettori di Trump, così come quelli di
Berlusconi, debbano puntualmente essere trattati come ignoranti, stupidi e
immorali?! Lo trovo un atteggiamento arrogante e supponente. Insopportabile”
Vorrei, innanzitutto,
provare a chiedermi come si sia potuti arrivare a questo scadimento del livello
civile del confronto politico. In secondo luogo, vorrei provare a dimostrare
che Trump non è affatto un monstrum unico e isolato nella storia
politica americana, ma ha un suo preciso retroterra in quella storia, anche se
ne è probabilmente inconsapevole e certamente questo retroterra lo fa rivivere
in modo decisamente rozzo. Spero che queste annotazioni
possano meglio chiarire non tanto chi
sia Trump – il personaggio è piuttosto elementare – ma che cosa ci sia “dietro” Trump, in termini di entourage, di
correnti e gruppi che lo sostengono e appunto di retroterra storico. Perché se
si può anche ridurre a caricatura un personaggio politico, quando poi costui
sia riuscito a diventare il candidato del GOP per la Presidenza è gravissimo errore intellettuale
sottovalutare o ignorare che cosa ci sia dietro di lui. Errore ancor più
tragico, se poi il personaggio in questione dovesse riuscire a conquistare la
Casa Bianca (ma anche se non ci riuscisse, si sarebbe comunque guadagnato il
consenso di quasi la metà degli elettori, a questo punto). Un errore non certo
nuovo, perché la sinistra snobistica lo commise già con Reagan – un Presidente
che peraltro ha precise assonanze con il candidato Trump, come vedremo - e mal gliene incolse. Ma se la sinistra
imparasse dai propri errori e sapesse ancora percepire la lunghezza d’onda delle
grandi correnti popolari, non sarebbe nello stato penoso in cui sta.
Vorrei infine provare a
dichiarare i motivi per cui, sulla base di questa analisi, mi auguro che
martedì notte il vincitore sia Trump e non la Clinton, e non già con la solita
giustificazione del “male minore”, ma per
evitare il male maggiore, che fra i due allo stato attuale dei fatti è appunto la Clinton.
Come è stato possibile
un simile scadimento? Non mi pare plausibile un improvviso instupidimento degli
elettori americani e imbarbarimento del paese. Se non altro questa è una di
quelle tipiche spiegazioni che non spiegano proprio nulla. Mi pare invece che
queste due candidature e la tristissima campagna elettorale che ne è inevitabilmente
seguita siano il risultato, uno dei nefandi risultati, della presidenza Obama.
Questi ha di fatto determinato il suo successore alla nomination dei
democratici; non per sua volontà, perché è anzi evidente che non abbia grande
simpatia per la Clinton, ma perché la sua presidenza lasciava spazio solo a una
candidatura di sostanziale continuità, anche se con un taglio più moderato e più gradito
all’establishment, o ad una candidatura che si presentasse, almeno nei programmi
e nell’immagine, come l’accentuazione e la radicalizzazione di quelle istanze
che Obama ha sollevato (e molto spesso anche tradito). E difatti lo scontro è
stato fra la Clinton e l’autoproclamatosi “socialista” Bernie Sanders.
Ma soprattutto Obama ha
involontariamente determinato anche l’avversario della Clinton, la contro
candidatura. Infatti, con la sua pestifera dittatura del “politically correct”
e con il suo sballato idealismo in politica estera - ha predicato pace,
tolleranza e democrazia e ha suscitato guerra, integralismo e totalitarismo – una
politica che oltretutto ha anche danneggiato gravemente gli interessi americani,
ha finito per suscitare una tale reazione nell’America profonda, un’America lontanissima
da quella dei grandi mass-media e quindi da quella che vedono gli europei, da
potersi considerare il vero artefice della sorprendente nomination di un
personaggio come Donald Trump.
2.
Non è vero che Trump non abbia alcun precedente nella
storia politica americana. Al contrario, egli riprende – certo, a volte in modo
che può sembrare quasi caricaturale, ma c'è anche dell'intenzionalità i questo– le posizioni fondamentali e le idiosincrasie di fondo di
una delle grandi correnti politiche americane. Nel suo non recentissimo ma
ancora fondamentale saggio sulla storia
della politica estera americana (Special
Providence, 2001), Walter Russel
Mead identificava quattro grandi correnti politiche (sul piano della
politica estera, ma il suo discorso intreccia continuamente, come è ovvio, la
politica interna). Il saggio – per inciso - è da raccomandare ai tanti europei
(quasi tutti, per la verità), che parlano della politica americana in un’ottica
eurocentrica, con categorie politiche che sono tipiche del vecchio Continente,
ma che non hanno quasi circolazione negli USA, e ignorando, invece, le
categorie politiche specificamente americane, il che produce poi catastrofici
equivoci e incomprensioni. Le quattro correnti sono battezzate ciascuna con il
nome di un grande personaggio della storia americana e si possono suddividere
in due coppie: da un lato abbiamo la corrente hamiltoniana e quella wilsoniana,
che sono sostanzialmente “interventiste” in politica estera e ritengono che gli
USA abbiano il dovere morale di edificare e garantire l’ordine mondiale,
modellandolo su determinati principi, valori e ideali, non certo slegati da concreti interessi. Queste correnti, nel
Novecento, hanno trovato i loro “campioni” non solo in presidenti democratici –
da Wilson, appunto, a Franklin D. Roosevelt a Obama – ma anche repubblicani:
Theodore Roosvelt e Bush padre furono due eminenti “hamiltoniani” e la prima
guerra del Golfo – nel modo in cui fu concepita, preparata, condotta e
terminata - fu difatti una tipica espressione di una visione politica e di una
strategia hamiltoniana.
Le altre due correnti, che si potrebbero definire
invece “isolazioniste” se la parola non fosse così spesso fraintesa in Europa,
sono quella jeffersoniana e quella jacksoniana. La prima ha dato alla politica
americana strateghi del calibro di George Kennan. La corrente jacksoniana è invece la meno conosciuta e la più deplorata in
Europa e, guarda caso, è proprio quella che fornisce il suo retroterra ed humus al fenomeno Trump. Quello che scriveva Russel Mead di questa corrente oltre 15
anni fa si presta benissimo a interpretare
il “fenomeno Trump”: “Forse la politica jacksoniana è così poco compresa
perché il jacksonismo è un movimento meno intellettuale e meno politico, mentre
ha invece la capacità di esprimere i valori sociali, culturali e religiosi di
una grossa fetta del popolo americano. Il suo pensiero è meno noto anche perché
affonda le radici in quella porzione di popolazione meno rappresentata nei
media e nell’ambiente accademico” e formata, aggiungeva poco dopo, soprattutto
da maschi bianchi e protestanti, di estrazione sociale medio-bassa e con
collocazione geografica prevalentemente nel Sud e nel Midwest. L’America jacksoniana,
continuava lo storico, non è una corrente ideologica, né un complesso di
interessi organizzati, ma è una
“comunità popolare” e “sembra voler continuare a produrre leader e
movimenti politici, destinati a detenere una forte influenza sugli affari
interni ed esteri degli Stati Uniti nel prossimo futuro”.
Come la corrente jeffersoniana, quella jacksoniana
ha una forte impronta libertaria ed
è intollerante nei confronti dei controlli e dei vincoli statali, ma mentre i
jeffersoniani privilegiano il Primo Emendamento e quindi la libertà di
espressione, i jacksoniani considerano invece il Secondo Emendamento e quindi il diritto di portare armi, come la
pietra angolare e la fortezza delle libertà individuali. Cosa che lascia
sbigottiti tanti europei “progressisti”, che non sono disposti a capire come
quella mania di portare le armi di tanti americani non sia un vezzo da cow-boy
trogloditi, ma – piaccia o non piaccia - sia un’abitudine addirittura legata
alla libertà personale e quindi tutelata da un Emendamento della Costituzione,
che viene subito dopo quello sulla libertà d’espressione e la libertà religiosa. E in tal modo viene anche fraintesa la vera sostanza dell'aspro dibattito che c'è in America su questo punto cruciale.
Tuttavia, più che su un sistema di valori il jacksonismo
si fonda su una sorta di codice d’onore.
In estrema sintesi i punti fondamentali di questo codice d’onore sono i
seguenti: primo, contare su se stessi.
I veri americani sono quelli che si fanno strada da soli nel mondo. Il successo
economico è quindi molto rispettato, quando è chiaramente dovuto al proprio
impegno. Secondo principio: l’uguaglianza,
non certo nel senso di uguaglianza economica o sociale, ma nel senso di pari
dignità e diritto. Ogni infrazione a questo principio di uguaglianza è accolto
con disprezzo. Terzo principio, l’individualismo,
che comunque non prescinde dal rispetto di regole e principi etici. Il quarto
principio è l’esaltazione del credito
finanziario, che deve garantire del resto individualismo e intraprendenza
personale, fornendoli di mezzi concreti. Infine, la comunità jacksoniana
traccia una netta linea di demarcazione
tra coloro che riconosce come propri membri e coloro che invece vengono
considerati outsiders, i quali se violano i principi fondamentali del
codice d’onore devono essere perseguiti implacabilmente e senza escludere alcun
mezzo.
Non è difficile scorgere in queste note, con buona
approssimazione, un ritratto di Donald Trump e dei suoi sostenitori ed esse basterebbero
a suggerire di abbandonare certe
sottovalutazioni e certe analisi caricaturali del personaggio e soprattutto
dell’America che lo appoggia.
Venendo specificamente alla politica estera, il
jacksonismo è certamente la corrente più strettamente legata al complesso militare-industriale, come si diceva una volta,
e promuove altrettanto certamente la crescita delle spese militari, ma –
attenzione – non è detto che i suoi
rappresentanti siano più “guerrafondai” di quelli di altre correnti e in
particolare degli hamiltoniani – legati agli interessi commerciali degli USA –
e degli idealisti wilsoniani. Di fatto, il maggior numero di interventi
militari americani si sono realizzati, nel XX secolo e all’alba del XXI, con
amministrazioni di matrice hamiltoniana o wilsoniana e secondo il programma di
queste correnti, compresa la famigerata guerra del Vietnam, comprese la prima
guerra del Golfo e la guerra del Kosovo. Quanto a Bush figlio, va detto che
Russel Mead scrive proprio alla vigilia dell’11 settembre 2001 e può così
senz’altro ascriverlo alla corrente jacksoniana, perché di chiara fattura
jacksoniana era stato il programma sulla cui base aveva vinto le elezioni. In
politica estera, George W. Bush intendeva ritrarsi dalle imprese militari di
Clinton su posizioni tendenzialmente isolazioniste. L’11 settembre cambiò la
scena e – provo a continuare l’analisi nell’ottica di Russel Mead anche se il
suo saggio non arriva al drammatico evento delle Torri gemelle - Bush reagì nell’immediato ancora con un riflesso
jacksoniano (capiremo a breve a cosa mi riferisco). La sua amministrazione era
però dominata dai cosiddetti neo-con, che jacksoniani non erano affatto. La
loro matrice era piuttosto wilsoniana ed essi per lo più si erano formati politicamente nel partito democratico, prima di fare il salto sull'altra sponda. Se l’attacco all’Afghanistan fu la reazione immediata
in stile jacksoniano del Presidente, questa reazione presto fu inserita nel ben
diverso progetto dei neo-con (il “New american Century") e il corto circuito fra
questo wilsonismo piegato a destra dei neo-con e il jacksonismo originario di
George W. produssero la sciagurata guerra all’Iraq (appoggiata da molti
democratici, a cominciare dalla Clinton).
In politica estera, così come in politica interna,
il jacksonismo non si ispira ad alcuna ideologia o teoria politica, ma ruota
intorno ad alcuni semplici assunti:
il primo è la convinzione che se è vero
che i problemi internazionali sono complessi, le soluzioni siano quasi sempre
semplici e i nodi gordiani debbano essere semplicemente tagliati. Da qui il
fastidio per le strategie diplomatiche (e qui sta una fondamentale differenza
fra Bush padre, hamiltoniano, e Bush figlio, jacksoniano). In secondo luogo, i
jacksoniani – anche se passano come quelli che hanno il “grilletto facile” –
tendono ad intervenire solo se sentono –
si tratta di una reazione istintuale prima ancora che di una analisi – che
l’interesse americano nel mondo è gravemente minacciato. In tal caso, è
senz’altro vero che – considerando l’assunto precedente – usino mezzi
decisamente sbrigativi, tendano all’unilateralismo e alle azioni dirette,
immediate ed energiche, scavalcando le mediazioni diplomatiche, curandosi poco
delle regole e delle istituzioni del diritto internazionale, mostrando
insofferenza per qualsiasi limitazione e autolimitazione nell’azione bellica
(mai più combattere con le mani legate come si è fatto in Vietnam, è una tipica
affermazione jacksoniana). Ecco, perché qualifico come frutto di un “riflesso
jacksoniano” la guerra in Afghanistan di George W. (mentre quella all’Iraq fu
assai più meditata, e sciaguratamente meditata). Ma se non hanno la sensazione di questa grave e imminente minaccia, i
jacksoniani tendono ad una politica estera molto meno interventista e quindi
tendenzialmente più “pacifica” rispetto agli esponenti di tutte le altre
correnti.
La ragione di fondo sta nella visione crudamente realista e pessimista del mondo che hanno i
jacksoniani. Il mondo è dominato irrimediabilmente dalla violenza, dalla legge
del più forte e dall’ingiustizia e sarebbe vano ed anzi disastroso che gli USA
si impegnassero a redimerlo. Da qui la radicale distanza con i wilsoniani, ma
anche la notevole differenza rispetto alla visione di politica estera delle
altre correnti. Il mondo è una specie di stato di natura hobbesiano, per cui
gli USA, lungi dal lasciarsi tentare da smanie missionarie, devono
vigilare, armarsi, prepararsi e devono intervenire solo al momento opportuno,
quando è strettamente necessario, in relazione all'interesse nazionale, e dispiegando tutta la loro forza d’urto. Il
pessimismo realistico dei jacksoniani è forse l’unico elemento che li rende
intellegibili alla politica europea, dato che in tal modo essi sono la corrente
politica americana più vicina alla Realpolitik.
Non si deve però ignorare che l’origine di questo pessimismo è ben diversa ed è
di carattere religioso: la cupa visione del mondo e dell’umanità, fuori dalla
cittadella assediata della propria comunità, che hanno i jacksoniani,
corrisponde all’idea della creazione decaduta e corrotta dopo il peccato
cosiddetto originale ed ha la propria matrice nel calvinismo dei Padri
fondatori, spesso rielaborato, però, in chiave premillenaristica: l’Anticristo
arriverà prima che il Messia sia di nuovo e definitivamente tra noi. Bisogna
quindi vegliare, certo, per il ritorno di Gesù, come ci invita a fare il
Vangelo, ma ricordando che prima che Gesù ritorni avremo qualche piccolo
problema e dovremo fronteggiarlo...
Il
jacksonismo, secondo Russel Mead, è la corrente politica di gran lunga più
importante nella storia statunitense: non sempre ovviamente, i Presidenti hanno
avuto questa provenienza ed anzi i jacksoniani sono stati in fondo pochi, ma
nessuna Amministrazione può permettersi di ignorare l’influenza del jacksonismo
nella società americana e nell’opinione pubblica. Questo è un lusso che possono
permettersi solo gli intellettuali radical-chic nostrani, magari anche
trapiantati negli States, ma incapaci di vedere oltre i cortili della Columbia
University.
Non a caso, il
più importante presidente jacksoniano della storia recente è stato
inizialmente tanto incompreso, sottovalutato e sbeffeggiato in questi ambienti,
prima che si accorgessero che si trattava oggettivamente – e a prescindere
dalle valutazioni di merito – del maggiore presidente nella storia novecentesca
degli USA, almeno dopo Franklin D. Roosevelt. Sto parlando, evidentemente, di Ronald Reagan. Spero che con Trump non
si faccia un errore se non simile, analogo.
3.
Mi pare che queste annotazioni, pur così
necessariamente sommarie, possano chiarire un po’ meglio il “fenomeno Trump”.
Esse riguardano innanzitutto la sua possibile politica estera, l’aspetto che
certamente ci deve interessare di più. Senza inserirla nel contesto del
jacksonismo, questa politica estera resterebbe assolutamente imprevedibile e
ogni considerazione si ridurrebbe a illazione, boutade o propaganda di bassa
lega (come di fatto avviene regolarmente sui mass-media nostrani). Anche in tal
modo, sia chiaro, restano moltissime incertezze, sia perché il personaggio è
comunque un jacksoniano sui generis,
se non addirittura “a sua insaputa”, sia perché in nessun caso la politica
jacksoniana è prevedibile, proprio perché a differenza di quella delle altre
correnti non si fonda su una dottrina e non parte dagli USA o dalla loro
autorappresentazione, ma dalle condizioni del mondo. E dunque i suoi sviluppi
dipendono da come evolve la situazione internazionale: se non ci fosse stato
l’11 settembre, George W. Bush avrebbe quasi certamente fatto una politica non
già diversa – questo varrebbe ovviamente per qualsiasi altro Presidente al suo
posto di fronte a un simile evento – ma completamente opposta a quella che ha
invece fatto. Se non si fosse trovato di fronte Gorbacev, con tutte le sue
debolezze, probabilmente Reagan avrebbe fatto una politica di “raccoglimento”,
dopo tanti anni di interventismo democratico, da Kennedy a Carter, con
l’amministrazione Nixon nel mezzo che dovette gestire i disastrosi risultati di
questo interventismo.
Certamente non abbiamo alcuna garanzia che Trump,
percependo minacce fatali agli USA, non compia azioni belliche sciagurate.
Esiste però anche una possibilità diversa: che ponga fine alle velleità di
esportare democrazia o di assecondare la nascita di piantine democratiche in
terreni assolutamente inadatti, come ha fatto chi lo ha preceduto, e se ne stia
alla finestra, limitandosi ad intervenire con decisione su pochi e ben
selezionati obiettivi.
L’alternativa
a Trump, invece, la conosciamo bene, l’abbiamo già
sperimentata in questi anni, in quanto la candidata democratica è stata per
quattro anni Segretario di Stato. E sono stati i quattro anni in cui
l’Amministrazione Obama ha prodotto i risultati più catastrofici (gli altri
quattro anni sono stati di gestione della catastrofe). E’ semplicemente ridicolo schierarsi con la Clinton, vedendo in Trump
una minaccia per la pace nel mondo! Significa aver vissuto su un'altra galassia e senza possibilità di comunicazione con il pianeta terra!
La
Clinton porta con Obama la responsabilità della guerra civile siriana,
nata dall’idea balzana che una “primavera democratica” potesse rovesciare il
“feroce dittatore Assad”. La primavera democratica è invece rapidamente
evaporata, il feroce dittatore è ancora al suo posto a Damasco, sostenuto dai
russi che sono tornati in forze grazie all’insipienza di Obama, dall’Iran e dagli
integralisti di Hezbollah; la Siria è però precipitata in una guerra civile che
ne ha diviso il territorio fra varie componenti, fra cui lo Stato islamico e
islamisti di varia e diversa “confessione”. Con centinaia di migliaia di morti
e di profughi. Con la distruzione di un patrimonio storico e artistico di
incomparabile valore. Con Aleppo, una delle più splendide città del mondo,
ridotta a macerie. Tutto ciò sta sulla
coscienza innanzitutto di Obama e della Clinton.
La
Clinton porta con Obama la responsabilità della nascita dello Stato islamico,
ossia del più feroce totalitarismo della storia dopo il nazismo.
Lo stato islamico, infatti si è allargato alla Siria, ma è nato in Iraq ed è
nato grazie alla dissennatissima decisione di Obama di ritirare le truppe senza
aver costruito o contribuito a costruire neanche una parvenza di stato e di
convivenza fra sunniti, sciiti e curdi (per tacere degli yazidi e dei
cristiani). La Clinton e Obama hanno sulla coscienza lo Stato islamico.
La
Clinton, più ancora di Obama stesso, ha sulla coscienza la Libia
(Gheddafi era un suo target specifico e Obama in quel caso non mostrava molta
passione per la causa), anche qui con una guerra civile e con la “catastrofe
umanitaria” dei migranti. Quando i progressisti buonisti si indignano per
l’”emergenza profughi”, piuttosto che inveire contro Salvini, dovrebbero più
concretamente rivolgere il loro sdegno umanitario in direzione della Clinton.
E’ stupefacente vedere come tanti irriducibili
critici e oppositori delle “guerre di Bush” si schierino oggi con la Clinton:
vorrei informare lor signori che, intanto quelle guerre furono appoggiate al
Congresso e in ogni altra sede dalla Clinton e non da Trump, e poi che i Bush tutti, padre, figlio
maggiore e figlio minore sostengono la Clinton, come la sostengono tutti i più
feroci “neocon” dell’Amministrazione Bush, dal vicepresidente Cheney, al
segretario di Stato Colin Powell (quello delle famigerate e fantomatiche armi
segrete di Saddam) a Wolfowitz, a Condoleeza Rice e a parecchi altri. I motivi
di questo sostegno sono facilmente intellegibili se si è avuta la pazienza di
seguire il discorso al punto precedente.
Chiarito quale pesantissimo fardello gravi sulla
Clinton, non ho ben capito, nonostante la sistematica campagna di stampa di
demolizione del personaggio, quale fardello gravi invece su Trump, a parte le
sue battute e affermazioni “sessiste”, condensate in un video privato di alcuni
anni fa, in cui faceva discorsi da bar, usando un linguaggio che usano molti
maschi – anche se non tutti – e che – non vorrei che qualcuno cadesse
tramortito per la rivelazione – usano ormai anche molte donne – sebbene non
tutte. O l’accusa, tutta ancora da verificare, di essere “inadeguato”. In ogni
caso si tratta di parole e di illazioni,
mentre contro la Clinton stanno fatti precisi e fatti già compiuti. Per
brevità non affronto il tema delle email,
ma è davvero difficile pensare che Trump
sia più inadeguato di una candidata che è indagata dall’FBI e che se eletta
sarà a rischio di impeachment o di dimissioni. Certo, si può pensare che
sia tutto un “complotto”, ma è singolare che questa tesi sia avanzata da coloro
che irridono – quasi sempre giustamente – tutte le teorie complottistiche in
circolazione. Come dire che i complotti che colpiscono noi o i nostri amici
politici sono reali e quelli che colpiscono gli altri sono sempre bufale.
Occorrerebbe, ogni tanto, fare pace col proprio cervello.
Non posso concludere senza citare il secondo
fondamentale motivo, oltre a quello della politica estera, che induce a
preferire Trump: se vincesse, passeremmo
da un Presidente icona del “politicamente corretto” a un Presidente icona del
“politicamente scorretto”. Non è una battuta e non è un fatto marginale, ma
di primaria rilevanza. Il “politicamente
corretto”, purtroppo a molti sfugge, ha una portata totalitaria, anzi si
potrebbe dire che è il “totalitarismo
soft” che nel triste mondo odierno fa da pendant al “totalitarismo hard”
dell’integralismo islamico. Infatti, chi
pretende di controllare il linguaggio pretende di controllare il pensiero e
forse non è neanche necessario aver studiato Parmenide e la scuola eleatica per
capire questo. Il politicamente corretto, inoltre, rende l’Occidente inerme – inerme
culturalmente prima che militarmente - di fronte alla epocale minaccia
dell’integralismo islamico. Non mi pare che si debba aggiungere altro: quando
una cosa è tanto importante non servono molte parole ed anzi troppe parole
relativizzano pericolosamente la dimensione del fenomeno; la dittatura del politicamente
corretto va sradicata dal mondo occidentale esattamente come lo Stato islamico
va sradicato dall’Iraq e dalla Siria. Solo così la civiltà occidentale – e mi
permetto di dire la civiltà tout court – potrà tornare a guardare al futuro
senza angoscia.
Proprio per questo, sebbene il personaggio non mi
rassicuri affatto, sia molto lontano da me da ogni punto di vista e mi susciti
anche un certo fastidio “estetico”, mi auguro il suo successo e soprattutto la
sconfitta della Clinton.
Passerò la notte fra martedi e mercoledì a seguire i
risultati delle presidenziali americane: la prima volta che lo feci fu tanti anni fa, nel 1976, con mio nonno; “tifavamo” entrambi per Carter (che vinse e lo sapemmo solo alle 7 di mattina quando arrivò il risultato della California), ma entrambi in seguito ci ripetemmo di
continuo quanto ci fossimo sbagliati. Ed io, neanche quindicenne, cominciai
allora a capire quanto fosse insidioso tracciare una netta linea di
demarcazione fra sinistra e destra, progressisti e conservatori e collocare
tutto il bene da una parte e tutto il male dall’altra parte. Mio nonno, invece,
lo sapeva da una vita, ovviamente, ma forse in quel caso gli piacque lasciarsi
contagiare dall’ingenuo entusiasmo del nipote…
Purtroppo io non ho nipoti e in ogni caso mi pare
che la Clinton, a differenza di Carter e dello stesso Obama, non possa proprio
suscitarne di tali giovanili e ingenui entusiasmi. La mia notte sarà dunque
disincantata, ma se Trump dovesse vincere non mi negherò, nonostante la
stanchezza, lo spettacolo ingenuamente entusiasmante delle faccine
scandalizzate, delle smorfiette sdegnate, dello stupore sgomento di tanti
“progressisti” e radical chic, quelli che non sanno portare la loro r moscia
con la stessa eleganza con cui l’Avvocato Agnelli portava la sua. Ma loro si credono ugualmente snob. Si potrebbe dire: pas de noblesse oblige...
Nessun commento:
Posta un commento